L’Ecomuseo: una risorsa per l’architettura rurale

Nel 1980 Georges Henri Rivière definiva l’ecomuseo uno specchio in cui la popolazione si guarda
per riconoscervisi, in cui ricerca la spiegazione del territorio al quale è legata, come pure delle popolazioni che l’hanno preceduta, sia nella discontinuità che nella continuità delle generazioni.
Uno specchio con cui la popolazione si propone ai suoi ospiti per farsi comprendere meglio, nel
rispetto del suo lavoro, dei suoi comportamenti e della sua identità.
Sulla base di tale definizione, oggi, dopo 30 anni di dibattiti ed esperienze, possiamo pensare all’ecomuseo come l’alternativa al museo tradizionale, “sotto vetro”, capace di esaltare il territorio come ambito privilegiato delle relazioni uomo-natura e coniugare le esigenze di promozione e sviluppo con le necessità di tutela e valorizzazione dei beni culturali di una comunità.
Il territorio, dunque, diventa esso stesso museo per rendere nuovamente leggibile e apprezzabile, per primo alla sua popolazione, l’identità e la diversità del proprio paesaggio, la cultura materiale e immateriale radicata nei secoli.
Ne deriva che oggetto di esposizione non sono più statue, dipinti, gioielli, architetture auliche ma tutto ciò che è frutto dell’uomo e del suo rapporto con il territorio che lo accoglie come l’architettura rurale che intesa come espressione materiale e culturale dell’azione antropica, comprende sia tipologie insediative ed edilizie che tutti quei segni lasciati nel paesaggio: la viabilità locale, i sistemi di canalizzazione, irrigazione e approvvigionamento idrico, le recinzioni degli spazi destinati alla residenza e al lavoro, i sistemi di contenimento dei terrazzamenti, i ricoveri temporanei, anche in strutture vegetali o in grotta, le pavimentazioni degli spazi aperti come l’aia, gli elementi e i segni della religiosità locale.
In Campania sono molte le strutture che testimoniano con estrema semplicità il valore delle nostre radici culturali. Strutture architettonicamente semplici ma molto funzionali che, rappresentando perfettamente la cultura contadina e quelle tradizioni che sembrano dimenticate, sono parte integrante del patrimonio materiale, di cui l’ecomuseo promuove la conoscenza e la trasmissione alle nuove generazioni.
Di tale patrimonio risulta, oggi, sempre più difficile apprezzare la bellezza e conservarne quelle connotazioni che hanno caratterizzato l’architettura minore. Le motivazioni, tante e di varie natura, sono da ricercarsi non solo nella difficoltà a trovarne esempi ancora “in piedi” ma anche nella diffusione di nuovi modelli abitativi, caratterizzati da una visibilità prorompente, nell’uso diffuso di tecnologie e materiali innovativi e, soprattutto, nella perdita di quelle regole e saperi, testimonianti la cultura materiale locale, ormai in pericolo di sopravvivenza e riconoscibilità. Solo pochi di questi piccoli e fieri edifici hanno resistito alle intemperie e alla vegetazione che ne hanno degradato le strutture abbandonate da anni, alle massicce ristrutturazioni, che li hanno trasformati in anonime costruzioni, agli interventi di consolidamento finanziati dalla legge 219/81, responsabile di danni maggiori di quelli causati dal sisma del 23 novembre 1980 che l’ha generata. Diventa, così, sempre più importante salvaguardare queste emergenze architettoniche degne di attenzione sia per le tecnologie costruttive con cui sono state realizzate sia per l’alto livello di integrazione con il paesaggio: motivi per i quali sono divenute, tra l’altro, importanti esempi di architettura ecosostenibile.
Le costruzioni rurali del passato sembrano, infatti, intrattenere con il territorio un legame molto più stretto di quanto non avvenga nella contemporaneità: il fatto d’essere state fortemente condizionate dalla morfologia del terreno, dalla disponibilità di materie prime, dalla diversificazione delle produzioni agricole, dal reperimento di energia quali acqua e sole, hanno determinato forme costruite che, in diretta consequenzialità alle funzioni svolte, non sono del tutto omologate e indifferenti al sito ma, basandosi sul concetto di necessità ed essenzialità, si basano su criteri e regole derivanti dal rapporto tra uomo e natura.
Nonostante le tante variabili, che hanno influenzato il patrimonio rurale costruito, è possibile individuare con chiarezza archetipi, generalmente identificati con il termine masseria, etimologicamente legato al latino “massae”, insieme di immobili, che indica strutture residenziali e produttive connesse allo sfruttamento del latifondo e all’allevamento di animali.
Il termine masseria individua, pertanto, indistintamente sia dimore unifamiliari con i relativi annessi rustici, sia “piccoli villaggi” dominati da grandi edifici baronali e caratterizzati dalla presenza di spazi aperti, depositi, stalle per gli animali, fienili, cantine e abitazioni dei contadini. Insomma, veri e propri microcosmi autosufficienti, animati nel loro interno da rapporti semplici ed essenziali.
L’origine e l’evoluzione dell’architettura rurale di Terra di Lavoro e del Sannio, come altrove, è stata fortemente influenzata dagli eventi storici di cui sono stati teatro i nostri territori. Spesso, infatti, queste abitazioni sono costruite su antiche strutture romane ( le villae rusticae), e sono dislocate strategicamente, per lo sviluppo economico e l’organizzazione militare del territorio, sui grandi tracciati (cardini e decumani) di collegamento con i pagus, i vici, le statio, tanto da essere, ancora oggi, punti di riferimento topografico di luoghi ed infrastrutture storiche. Oppure, sono nate dalla trasformazione di architetture difensive che, in epoche di minori insidie, hanno mutato la loro originaria destinazione d’uso. Numerose sono le torri semaforiche che, originariamente destinate al controllo di importanti vie di comunicazione, sono state inglobate in complessi agricoli, caratterizzando le abitazioni rurali con la presenza di elementi tipici dell’architettura castellana, quali garitte, scarpature, recinzioni, muri di notevole spessore e aperture di limitate dimensioni, che conferiscono un carattere difensivo prima che una funzione produttiva.
Le condizioni di sicurezza del territorio campano, tra la fine del ‘500 e gli inizi del ‘600, sono ancora tali da consentire la realizzazione di sporadiche residenze di campagna.
Solo le minori insidie del XVII secolo permettono l’inizio della circolazione di nuove tipologie costruttive: corpi di fabbrica ad uno o due piani caratterizzati da un maggior numero di aperture, da scale esterne e porticati. Le aie non sono più circondate da alte e possenti mura ma vengono delimitate dalla vegetazione mentre le torri difensive vengono trasformate in colombaie, destinate all’allevamento dei colombi e alla raccolta degli escrementi.
Torre colombaia – Foglianise (BN)
La torre colombaia , nella struttura di una casa rurale, non può e non deve essere considerata una costruzione ausiliaria, come il pollaio o il forno, né un dettaglio aggiunto e senza influenza, in quanto rappresenta un elemento di primaria importanza  nell’ordinamento della casa stessa, tanto che intorno ad esso sorgono le altre costruzioni e gli annessi più eterogenei. Questo spiega l’infinita varietà di tipologie, che consente ad ogni casa di assumere una sua fisionomia, diversa dalle altre. A volte la torre si trova sull’angolo dell’edificio, in altri casi al centro, solo raramente sorge isolata dall’abitazione o inglobata nelle mura di recinzione e delimitazione (es.Masseria Don Marco di Pietrelcina). Nelle case delle famiglie più ricche, la torre colombaia, di dimensioni notevoli, particolarmente curata e abbellita da decorazioni in pietra lavorata, diviene elemento estetico e decorativo, un dettaglio stilistico di importanza sociale, espressione della posizione civile ed economica del proprietario.
A parte la varietà delle forme originarie e dei successivi adattamenti, esiste un gran numero di torri colombaie, diffuse soprattutto nelle campagne del beneventano, che testimoniano l’importanza di tale struttura derivante da una precisa ragione: fino al XVIII e XIX secolo, l’allevamento dei colombi ha permesso ai contadini di produrre  un concime fortemente azotato, la colombina, dalla grande potenzialità fertilizzante, di disporre di volatili capaci di ripulire il terreno da semi ed erbacce nonché di avere a disposizione ottima carne senza alcuna spesa.
Nel Sannio la colombaia è l’elemento caratterizzante la tipologia costruttiva prevalente, costituita dalla masseria a blocco unico, priva di corte centrale.
In Terra di Lavoro, la grande varietà di forme edificate, che vanno dal tipo più elementare alle grandi corti della pianura asciutta, è motivata dall’estrema varietà orografica del territorio, che comprende sia zone tipicamente appenniniche sia la fertile pianura fino alla costa, e dalla varietà delle colture, che hanno fortemente condizionato la natura, il numero e le dimensioni dei servizi rurali annessi. Nelle zone pianeggianti,come nella piana Aversana, Alifana e Aurunca, nei territori intorno al vulcano di Roccamonfina ed in quella di Riardo e Presenzano, predomina il seminativo, sicché le masserie possiedono ampi granai, per la conservazione dei cereali, a piano terra o nel sottotetto aerato. Nella zona del basso Volturno prevale la coltivazione della canapa, che richiede particolari strutture e locali per la produzione della fibra e la sua conservazione, pertanto le costruzioni, sono caratterizzate da ampie aie, utilizzate per l’essiccazione e la decanapulazione, e da vasche per la macerazione, poste generalmente lontano dalle abitazioni per le esalazioni nocive e maleodoranti sprigionate dalla canapa.
Masseria Casalbore (AV)
Dal XVI secolo nella zona dall’Appia al mare, dal Massico a Villa Literno, per l’impossibilità di sfruttare i pascoli, a causa delle periodiche inondazioni del Volturno, si diffondono gli allevamenti bufalini cosicché l’architettura delle masserie viene fortemente caratterizzata dalla costruzione di tettoie per le bufale, le cosiddette “pagliare o procoi” e da locali per lavorazione dei latticini. Man mano che si avanza verso le zone collinari e pedemontane il paesaggio presenta una minore uniformità, consentendo differenti attività agricole, così al seminativo si affianca la coltura di alberi da frutta, della vite e dell’olivo. Ma è soprattutto nella zona pedemontana e montana che il paesaggio agrario è segnato dalla coltivazione dell’olivo, che rende indispensabile la presenza del frantoio nella masseria. Le colline che segnano il confine tra le province di Benevento e di Caserta, sono cosparse di piccole masserie contadine capaci di rivelare l’agricoltura povera, tipica delle zone interne meridionali. Qui le abitazioni sono nate in maniera spontanea con un radicamento innato del senso della misura e del limite della relazione tra consumo e rinnovabilità delle risorse. I muri venivano realizzati con le pietre raccolte sul posto, spesso accantonate per liberare i campi da coltivare. Dalla cottura delle pietre si ricavava la calce, che mischiata alla terra locale consentiva la preparazione di malte. L’argilla cotta, invece, forniva i mattoni per le mura e i coppi per la copertura. La costruzione della casa era considerata un avvenimento a cui prendeva parte non solo tutta la famiglia ma anche parenti e vicini, in una sorta di condivisione degli eventi più importanti come l’imbiancatura a calce della casa nella settimana pasquale, la raccolta delle olive, la mietitura, la vendemmia, il matrimonio di una figlia, il parto di una mucca… i canti, le preghiere, le danze, la cucina e i festeggiamenti che  accompagnavano questi momenti, oltre che premiare la fatica impiegata, trasformavano operazioni manuali in una sorta di rituale, capace di manifestare un forte senso di gratitudine verso la terra e Dio, di rafforzare i legami affettivi e la cooperazione tra le persone.
Amalia Gioia