Dal Museo all’Ecomuseo

Giulio Minervini, noto studioso e archeologo del tardo Ottocento, battezzò Terra di Lavoro “miniera d’inestimabili dovizie di archeologia”; oggi Donato Ceglie, PM della Procura di Santa Maria Capua Vetere, definendola “cimitero di veleni” ne ha dato una nuova lettura.

Il patrimonio culturale, l’insieme delle numerose testimonianze del passato che ereditiamo dalle generazioni che ci hanno preceduto, è un bene collettivo, una grande ricchezza ricevuta in dono da tutti i cittadini e da tutte le popolazioni. Il patrimonio è per ognuno dei nostri territori, la seconda risorsa di ogni sviluppo, dopo la risorsa umana. Le nostre culture, la nostra qualità di vita, il quadro di tutte le nostre attività economiche, l’immagine che noi diamo agli altri e che abbiamo di noi stessi, tutto questo è fondato sul nostro patrimonio, nella sua globalità, che è fatta di tutti i patrimoni individuali e familiari, di tutti i paesaggi rurali e urbani, di tutte le nostre tradizioni e abitudini. Preservare il patrimonio culturale, nel suo significato più ampio, è un diritto/dovere della comunità. Ciascuno di noi ha il diritto di conoscerlo, interpretarlo, goderne e, contestualmente, la responsabilità di conservarlo e trasmetterlo integro, se non accresciuto, alle generazioni successive.

I reperti archeologici, i monumenti, le chiese, i musei ci raccontano la nostra storia; grazie ad essi scegliamo e rafforziamo le nostre appartenenze. Anche quando non ci sono monumenti o siti importanti, quando ci sono poche possibilità di attirare un turismo di massa, anche quando siamo poveri, il nostro patrimonio è ben presente, noi ne siamo coscienti: la prova è che noi desideriamo trasmetterlo ai nostri discendenti.Ma l’identità di una città si costruisce anche intorno a significati di altra natura: memorie collettive e testimonianze orali, legate ai luoghi del lavoro e della vita sociale, raccolte “minori” e archivi periferici. E’ soprattutto la comunità locale ad essere moralmente e culturalmente proprietaria della totalità del suo patrimonio e responsabile della sua tutela, della sua trasmissione e del suo rinnovamento.
E’ a livello locale che la conoscenza, la manutenzione e la valorizzazione del patrimonio si possono e si devono fare.I principali protagonisti del presente e del futuro del nostro patrimonio sono: in primis, gli abitanti, ovvero i membri delle comunità, eredi naturali della ricchezza di questo territorio; i rappresentanti delle istituzioni pubbliche che hanno in carica l’interesse generale e l’applicazione delle norme e delle regole:amministrazioni comunali, enti statali, università e musei; ed infine gli agenti economici, ovvero le imprese operanti nell’ambito territoriale che sono allo stesso tempo beneficiari, utilizzatori, produttori e distruttori del patrimonio. Ad onor del vero gli amministratori, e chi si occupa dello sviluppo del proprio ambiente, non possono fare molto solo con le regole e i mezzi finanziari, se i cittadini non prendono coscienza del loro ambiente e della ricchezza che esso rappresenta.Tra queste categorie è necessario che ci sia cooperazione, ognuno deve fare la sua parte, per arrivare ad un movimento comune di presa di coscienza collettiva del patrimonio sotto tutte le sue forme.
Se uno dei protagonisti manca all’appello, questo capitale correrà dei rischi, non fosse altro che per il disequilibrio delle forze, questa responsabilità non può e “non deve essere scaricata su un’istituzione, sulla scuola, sugli amministratori che abbiamo eletto o sui ricercatori venuti da fuori” (de Varine, 2005): tutti questi soggetti hanno una parte di responsabilità, ma non potranno riuscire ad esercitarla senza l’aiuto e la collaborazione del maggior numero possibile di membri della comunità.
Del resto una struttura ecomuseale può nascere, sopravvivere e si spera svilupparsi, solo in un territorio in cui la comunità è consapevole della ricchezza del proprio patrimonio e partecipa attivamente alla sua valorizzazione e conservazione in un’ottica di sostenibilità. È dunque necessario fare appello a un catalizzatore di tutti i patrimoni e di tutte le memorie. Ma considerando che le biblioteche, le mediateche e gli archivi sono visti come luoghi adatti e riservati solo ed esclusivamente a studiosi, eruditi e “letterati” non restano che i musei per assolvere a questo ruolo, ma non qualsiasi tipo di museo. Il museo tradizionale, che veglia gelosamente le sue collezioni, non conosce che il suo “pubblico”, ossia il piccolo numero di visitatori, generalmente venuti da fuori, che attraversano la sua porta: “ è necessario, quindi, inventare localmente, una forma specifica di museo, mediatore del patrimonio nella sua globalità, capace di parlare nel contempo ai politici, ai funzionari pubblici, ai proprietari, agli abitanti in genere, ai giovani e agli anziani, per portarli a condividere non i reperti inventariati nei magazzini o selezionati per le mostre (anche quelli, ma non solo), ma l’insieme del patrimonio della comunità, nel lungo periodo e in una prospettiva dinamica mirata allo sviluppo”  (de Varine, 2005).
L’esigenza di creare un ponte tra il territorio, la sua storia, le persone che lo hanno abitato e le politiche di sviluppo che riconoscono in questi elementi il vero giacimento dal quale estrarre le materie di base per la crescita economica di un luogo, ha dato vita ad un nuovo sistema di promozione e valorizzazione del territorio: l’ecomuseo, espressione di una nuova visione museologica in cui i componenti della collettività dovrebbero essere soggetti attivi nel processo di identificazione, interpretazione e significazione del loro patrimonio culturale, oltre ad esserne i primi custodi. Nei casi più riusciti, infatti, gli Ecomusei hanno favorito l’emergere dell’identità delle comunità locali e l’avvio di processi di sviluppo e valorizzazione economica attraverso la conservazione e la reinterpretazione di particolari aspetti del patrimonio.
L’ecomuseo, che fa riferimento per definizione al complesso sistema delle risorse naturali, culturali e paesaggistiche delle singole realtà locali, implicando un rapporto specifico con le forme istituzionali di protezione dei contesti naturali di pregio come i parchi e le aree protette, rappresenta una delle evoluzioni possibili di organizzazione e di fruizione della forma museale così come è stata intesa fino ad oggi. ll modello organizzativo del museo tramandato nel corso dei secoli, teso a conservare, preservare e mostrare la memoria artistica per dimostrare la grandezza delle civiltà che si sono avvicendate nella storia dell’uomo, ha conosciuto negli ultimi decenni una profonda crisi.
Il desiderio di innovazione, nato dalla convinzione che i musei non debbano limitarsi a raccontare la storia degli oggetti che conservano ma parlare di uomini e idee ha contribuito alla creazione di una nuova museologia. Oggi il sistema organizzativo evolve in direzione di un modello di museo-diffuso capace di restituire la storia di contesti fisici, luoghi minori dello spirito, tessuti di casi, di opere, di forme leggibili, anch’essi segni di una storia passata. L’ecomuseo viene visto come la possibilità che la forma-museo si estenda su di un intero territorio, coinvolgendo in prima persona la popolazione, ritrovando un senso a vecchi insediamenti abitativi, ad oggetti e a metodi obsoleti, reimpiegandoli per nuovi scopi produttivi e culturali. Questa nuova possibilità di offerta e fruizione del patrimonio locale registra grandi e crescenti aspettative in tutta Europa: intorno ad essa si può costruire un nuovo modello di offerta turistica in grado di condizionare la domanda, attualmente già direzionata verso nuove forme di turismo che prevedano esperienze di conoscenza diretta della realtà locale, fungendo da elemento attrattore forte ed innovativo.
E’ con la Nouvelle Muséologie e con l’opera di ri-definizione teorica attuata dai suoi due principali interpreti, Hugues de Varine e Georges-Henry Rivière, che viene impostato definitivamente e su nuove basi il rapporto tra patrimoni e musei. L’ecomuseo esprime, così, il tentativo di esaltare il territorio come luogo di relazioni, come spazio in cui sono sedimentati saperi locali, memorie, testimonianze e non si configura più come contenitore di oggetti, ma è un’istituzione viva che studia il paesaggio, i siti, gli edifici e le testimonianze per poi elaborarli in rappresentazioni destinate ad una comunicazione pubblica.
Con la crescente attenzione per le questioni ambientali e per la salvaguardia della specificità culturali locali sviluppatesi negli anni ’70, la concezione di ecomuseo si evolve allontanandosi ulteriormente dai modelli tradizionali e mostrando sempre più attenzione al rapporto tra pubblico, territorio e museo. In questa seconda fase essi si fondano principalmente sul coinvolgimento attivo della popolazione. Come  strumento di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale locale, inoltre, l’ecomuseo non coinciderà più con un sito od un’area circoscritta ma sarà identificabile con l’intero territorio della comunità.
Quando parliamo di ecomuseo non vogliamo riferirci propriamente ad una concretizzazione fisica, ad un allestimento, ma piuttosto alla nascita e allo sviluppo di un processo che vede necessariamente il coinvolgimento di una serie di attori diversi: gli enti locali, l’associazionismo, gli istituti di ricerca, le realtà economiche, la scuola. Il termine usato per esprimere la totalità di questi soggetti è quasi sempre quello di comunità, che non vuole tuttavia richiamare una realtà pacificata e unanimemente concorde, quanto un universo complesso di persone che, a diverso titolo e con diversi ruoli, hanno “interesse a partecipare” al progetto. Riguardo ai metodi e alle tecniche di tutela e valorizzazione dei beni culturali e ambientali occorre innanzitutto affermare
che ogni comunità adotta gli strumenti che si adattano meglio alle sue caratteristiche, in quanto gruppo di persone con conoscenze, competenze e passioni, e al luogo in cui opera (aree periferiche di montagna, aree urbane, aree industriali). Inoltre, un ecomuseo può nascere dalla trasformazione di un museo, dalla pianificazione territoriale con un sistema museale, da un progetto diffuso sul territorio senza museo (senza collezione) e con un centro di interpretazione. Un ecomuseo è, comunque, non un progetto statico ma un processo dinamico, che ha continui obiettivi da raggiungere: evolve e si trasforma continuamente perseguendo la “mission” ecomuseale.
Secondo la definizione dell’IRES Piemonte (Istituto di Ricerche Economiche Sociali), l’ecomuseo viene visto come un patto con il quale una comunità si impegnaa prendersi cura del suo territorio: “patto” inteso non come norme che obblighino o proibiscano qualcosa, ma come un accordo non scritto condiviso da tutti, che deve essere accompagnato da un coinvolgimento molto largo dei cittadini (“comunità”); “prendersi cura” vale a dire conservare ma anche saper utilizzare, per l’oggi e per il futuro, il proprio patrimonio culturale in modo da aumentarne il valore anziché consumarlo; “territorio” inteso non solo in senso fisico, ma anche come storia della popolazione che ci vive e dei segni materiali e immateriali lasciati da coloro che lo hanno abitato in passato. Dal rapporto col suo patrimonio, la comunità acquisisce consapevolezza di sé, contribuendo al proprio sviluppo.
I vantaggi dati dalla creazione di un ecomuseo sono facilmente riscontrabili lì dove sono già realtà: comportano un notevole miglioramento della qualità della vita, perché in un territorio valorizzato, vissuto e plasmato da chi ci vive secondo criteri di sostenibilità e di rispetto e recupero del patrimonio, i primi a trarne i vantaggi sono coloro che vi abitano; sviluppa capacità ricettive particolari nei confronti dei turisti, fonte di arricchimento ma, allo stesso tempo, responsabili del depauperamento.
Potremmo sintetizzare il tutto scrivendo che un museo tradizionale espone una collezione,un ecomuseo un patrimonio; un museo è sito in un immobile, un ecomuseo nel territorio; un museo si rivolge ad un pubblico, un ecomuseo ad una popolazione; un museo viene visitato, un ecomuseo vissuto. Ordinando la sintesi, dunque, potremmo dire che un’organizzazione museale può dirsi ecomuseo se è nata spontaneamente attraverso o, ancora meglio, per iniziativa della comunità locale con il fine di raccontare e preservare la storia del territorio e della comunità stessa. Se infatti gli ecomusei sono musei del territorio è evidente che ognuno risponderà alle caratteristiche del proprio patrimonio-territorio e ogni comunità userà il proprio linguaggio per narrare la propria storia e tradizioni.
Questa è la forza e il limite di questo tipo di organizzazioni: la forza perché, meglio di altre, riesce ad avvicinare la popolazione ad esperienze alle quali generalmente non partecipa e perché, potenzialmente, consente la valorizzazione di un intero territorio  coniugando il patrimonio culturale con quello economico e sociale, il limite perché non avendo una storia consolidata alle spalle, da cui attingere esperienze e modelli, si presta a interpretazioni di chi, solitamente le amministrazioni pubbliche, la adotta come forma museale non conoscendone le caratteristiche e quindi non sfruttandone le potenzialità.
Gli ecomusei, ovviamente, non nascono come esperienze isolate; sono infatti il frutto di una rivoluzione sociale ma anche museologica in corso da tempo e che già aveva prodotto alcuni significativi risultati attraverso la creazione di nuove forme museali molto vicine a quello che saranno gli ecomusei. La nascita di quest’ultime, a partire dalla fine del XIX secolo, è stato l’inizio di una lenta riflessione in campo culturale che ha visto il cambiamento del concetto di patrimonio. Proprio alla nuova sensibilità verso la tutela delle testimonianze fino a quel momento considerate “minori”, come le architetture tradizionali, abbigliamenti tipici o tradizioni gastronomiche o enologiche, ma anche elementi immateriali come lingue e dialetti, storie, proverbi, professionalità legate a mestieri che non si praticavano più, si devono le prime esperienze-tentativi di rappresentarlo attraverso nuove forme museali.
“Ciò che sembra non più procrastinabile è un concorso attivo dei cittadini, che modifichi in parte l’attuale approccio di delega e che si faccia carico collettivamente di aspetti, spesso immateriali ma di enorme valore” (Maggi, 2005) senza i quali il patrimonio si impoverisce, il paesaggio culturale nel quale viviamo e nel quale vivono le persone che ci sono care, lentamente si consuma e viene rimpiazzato da altro, di qualità spesso inferiore. Non bastano le regole e i divieti, talvolta necessari, per impedire il saccheggio del territorio, che spesso degrada per azione degli abitanti anche nel pieno rispetto delle leggi: “occorre consapevolezza che si tratta di un bene prezioso, appartenente a tutti e che costituisce il tessuto connettivo, la base sulla quale vivere con gli altri nostri simili e che perciò va collettivamente preservato” (Maggi, 2005).
Daniele Napolitano