Antropologia, folklore ed ecomuseo

Il contributo che l’antropologia culturale e lo studio del folklore possono dare alla progettualità e alla realizzazione dell’ecomuseo è, a mio avviso, così evidente da sembrare addirittura inevitabile.
C’è senza dubbio una relazione fisiologica tra il pensare antropologico relativo alla memoria o all’ambiente e questa nuova prospettiva museografica. In ambedue i casi l’intervento che si propone è quello sia di preservazione, se vogliamo anche documentaria, che quello, a mio avviso ben più interessante, di rendere di nuovo vivo quello che non a caso viene definito dal sociologo Pierre Bordieu un vero e proprio capitale culturale. In questa prospettiva l’antropologo interviene attivamente sul recupero e sulla riproposta della memoria, inserendosi a pieno titolo e con un adeguato apporto nell’intera progettualità dell’ecomuseo.
Per facilità di impostazione focalizzerei proprio su questi due punti (preservazione e riproposta), anche se ovviamente altri aspetti dovrebbero essere trattati più approfonditamente. Penso ad esempio a riflessioni sulla formazione – che a mio avviso va vista in termini dinamici e assolutamente continui. Oppure ai momenti divulgativi in cui l’attenzione antropologica potrebbe fornire apporti sia tecnici che teorico-metodologici. Ma, come dicevo, i due assi fondamentali rimangono quelli citati.
Cosa significa la preservazione della memoria? Consentire alle generazioni future la consapevolezza – e questo è un termine che risulterà centrale in tutta questa elaborazione – di un passato che non sia rappresentato solamente dai suoi reperti più o meno inventariati e più o meno conservati in contenitori, i musei,  che sono molto lontano dall’essere asettici: a chi spetta la decisione di cosa preservare? E come? Solo per esemplificare: chi ha il potere di decidere che un quadro è più degno di un aratro, per divenire reperto? Da questo punto di vista l’attenzione si sposta su altro: il territorio, la sua storia, il rapporto con l’ambiente, le persone e il loro manifestarsi in comunità.
Purtroppo un lungo retaggio culturale, fortunatamente poi diventato oggetto di profonde critiche, ha portato ad una visione della cultura e della storia come catena di “eventi” eccezionali discontinui. Né l’una né l’altra sono tali. Al contrario sono invece immerse in un quotidiano, in un paesaggio, in una concezione del mondo, che attraversano la nostra vita semplicemente e costantemente. E non per questo sono meno degne di attenzione. C’è un proverbio senegalese che illustra pienamente questa complessità: “quando muore un vecchio, brucia una biblioteca”.Da qui l’assoluta importanza di ri-centrare l’attenzione sulla dimensione ecologica, nella sua accezione di studio dell’ambiente in senso lato, dando voce a chi generalmente voce non ha.
Ma oltre al piano teoretico qui l’antropologia credo possa fornire un contributo metodologico specifico. Come è noto, il metodo di base generalmente proposto in antropologia è la cosiddetta “osservazione partecipante”, vale a dire quel complesso gioco di avvicinamento e allontanamento all’interno di un gruppo sociale da parte di un osservatore. E’ evidente che proprio qui l’accento non va più sull’Evento, ma si sposta sul quotidiano, sulla densità del vivere giorno per giorno, che viene prima di tutto “partecipato” e vissuto, quindi, osservato attraverso un processo di distacco utile alla documentazione. Va da sé che, accanto a questa analisi partecipante che rimanda al vissuto, ogni fruitore avrà la necessita di scandagliare quelle dimensione culturali e storiche che la comunità suggerirà “dal campo”. Ad esempio, è probabile che la dimensione religiosa diventi oggetto di interesse, essendo centrale nella comunità, e quindi esplorare eventi (tipo le cerimonie, ad esempio) risulterà una conseguenza logica.
Ed è qui, a mio avviso, che si viene a produrre quella ulteriore dimensione di cui dicevo pocanzi: la riproposta. Se infatti l’ecomuseo non ha a che fare con una strutturazione museale in senso “classico”, ma al contrario con una dispersione territoriale e ambientale connessa alla comunità, la prospettiva antropologica, insieme ai suoi metodi, può contribuire alla creazione di senso.
Faccio un esempio: immaginiamo una situazione di rilevazione in cui un osservatore si trova ad intervistare qualcuno sulla narrativa orale (scelgo non a caso questo settore proprio per continuare nella metafora di dare voce a chi non ne ha. Troppo spesso la narrativa orale viene ad essere posta in un secondo piano rispetto ad altre narrative). Magari l’intervistato comincerà a raccontare una fiaba, o magari i racconti relativi a streghe, mazzamaurielli, lupi mannari etc.etc. Se l’osservatore avrà avuto l’accortezza di portare con sé un registratore o una videocamera, l’oggetto-fiaba potrà diventare documento – forse anche monumento, per dirla con Le Goff – e preservato come memoria. Ma c’è molto di più: in quel momento in cui la memoria viene sollecitata e torna alla luce di fatto avviene la riproposta di una cultura altra che è rimasta occultata fino a quel momento. Questo procedimento ha inoltre l’effetto di generare una consapevolezza (ancora una volta termine centrale, a mio avviso) della propria identità e della propria appartenenza culturale e sociale.
Nel concludere vorrei solo aggiungere poche parole su alcuni punti che ritengo fondamentali per utilizzare una prospettiva antropologica connessa all’ecomuseo. Una prima riflessione ha a che fare con l’osservatore. Molto spesso si considera preferibile in campo antropologico che l’osservatore sia esterno alla comunità che studia. Al di là che da anni anche questo aspetto è sottoposto a molte critiche metodologiche, aggiungerei che mai come in questo caso l’osservatore dovrebbe essere invece parte della comunità, proprio per quella dinamica recupero/riproposta di cui dicevo prima, dove il costruire una consapevolezza è il punto centrale. L’osservatore interno è in questo caso fonte di ulteriori riflessioni.
Infine, volevo mettere in guardia da un errore tipico di chi si avvicina ad un territorio in questa prospettiva: il rischio della nostalgia e della ricerca di autenticità. Ambedue i concetti sono molto ambigui e contribuiscono solo ad una de-storicizzazione della comunità. La nostalgia offuscherebbe una visione più generale e completa, che deve vedere i “bei tempi andati” anche come luogo di sofferenza e difficoltà, di contraddizione e conflitto: categorie assolutamente utili alla comprensione. L’autenticità reclamerebbe invece uno specifico comunitario che, semplicemente, non è, visto e considerato che i confini, simbolici quanto concreti, sono fatti per essere attraversati. L’illusione della specificità (“questa fiaba si raccontava solo qui”, per esemplificare) serve solo ad reclamo settario e storicamente irrealistico. L’essere riusciti a rompere la ristrettezza dello spazio museale, sia in termini strutturali che tecnici, è uno dei punti di forza della prospettiva eco museale, cogliamone appieno le potenzialità, allargando gli spazi teorici e metodologici. Anche con l’aiuto dell’antropologia.

Augusto Ferraiuolo