L’Ecomuseo: uno sguardo sul territorio

Picasso amava affermare che le sue opere non erano il frutto del guardare ma del vedere. Era consapevole di non cercare, ma di trovare nella realtà che lo circondava l’idea ispiratrice maturata nella sua mente. Vi è una precisa differenza tra guardare e vedere. L’arte è sempre stata incentrata – si pensi solo al pensiero  di Platone – sul concetto di vedere, al punto da diventare il senso principe di qualsiasi corrente estetica occidentale, con una conseguenza: sottovalutare tutti gli altri sensi che appartengono di diritto all’esperienza fenomenica, base di qualsiasi forma di conoscenza.
Nel museo si eredita questa impostazione. E’ concepito come un contenitore che custodisce delle opere, queste si possono vedere ma, ad esempio, non toccare, per la corretta conservazione degli esemplari. Lo stesso concetto di contenitore che ospita un’opera o un reperto per un’esposizione museale, tradisce la fruizione del bene conservato, perché lo priva del contesto naturale per cui era stato concepito, progettato ed utilizzato, prima ancora che esperito dal pubblico. Nei musei, infatti, si visita e non si esperisce.L’Ecomuseo è un concetto nuovo e rivoluzionario. E’ dinamico, collettivo e partecipativo, in quanto appartiene alla comunità che lo gestisce.E’ fondato sull’esperienza diretta. Ciò comporta una riappropriazione del territorio attraverso un nuovo studio ed una nuova forma di rappresentazione di esso.E’ quanto dimostra il concorso fotografico Ecologicamente Click Art dove è stato selezionato un archivio comparato di dodici coppie di foto attuali e storiche o semplicemente appartenenti al passato. Il confronto è stato realizzato dagli studenti delle scuole, con la partecipazione dell’intera comunità della circoscrizione, specie gli anziani, custodi delle foto del passato, ricordi della loro giovinezza. Si è riscoperto così un territorio che aveva perso molte tracce e la stessa leggibilità di esse. La foto ha determinato una ricerca di identità dei luoghi, un riconoscimento collettivo in quanto atto del guardare. Per esso si intende individuare la territorialità, ossia la relazione tra la comunità e lo stesso territorio che in passato ha consentito di organizzare il lavoro – si pensi alle attività agricole – e garantito il soddisfacimento di tanti altri bisogni, anche spirituali.Solo guardando emerge la materialità delle cose che ci stanno intorno: architetture, strade, campagne – luoghi dove si vive e si produce, prima ancora che opere d’arte, di artigianato o paesaggi – perfino un piccolo oggetto che ha un particolare valore affettivo, come un ex voto, in cui si riconoscono in molti; così un elemento naturale, a volte semplice e comune, quale l’acqua delle sorgenti o delle grotte, a cui una data comunità conferisce particolare valore per le capacità curative.Nella sezione Ecologicamente Click  Art del concorso d’Idee L’Ecomuseo. Il futuro della memoria, la differenza tra passato e presente ha permesso di capire cosa è rimasto in noi, nei nostri ricordi e soprattutto come, ossia con quale meccanismo associativo – promosso sempre da un qualcosa fortemente caratterizzante – questa possa riaffiorare nella nostra mente. Tale esperienza è stata significativa perché indica cosa custodire e valorizzare nei percorsi ecomuseali. Le foto del concorso dimostrano bene questo processo: guardare per riscoprire, non senza nostalgia, la fisicità del territorio, nostalgia che si trasforma, però, nel desiderio di riproporre – con l’Ecomuseo –  la quotidianità di un tempo in quella di oggi.Guardare è sinonimo di cercare, registrare la realtà che c’è intorno sempre più vicino nei dettagli, pedinando ogni fenomeno. Se si guarda, si testimonia ciò che appare senza filtro, al di là di pregiudizi e timori. Ci vuole un certo disincanto per guardare, non si persegue la bellezza a tutti i costi, ma ciò che concentra l’attenzione, ad esempio un’assenza: una parte di colle mancante, perché scavato con sistematicità, su entrambi i versanti, così senza un programma, procedendo a sottrazione; quindi via il verde, i terrazzamenti a coltura, la roccia stessa, a dispetto della linea di orizzonte di un quadro di Hackert che nel profilo del colle stagliato nel cielo, aveva trovato il paesaggio come non era mai riuscito prima in Germania. L’occhio nell’atto del guardare non si ferma, non contempla, si concentra sull’insistente operato dell’uomo a eliminare bellezza, con parsimonia sfacciata, così senza alcuna mediazione e sosta; come quando si guardano le cave dei colli Tifatini, affacciati a una finestra.
Non ci vuole particolare preparazione per guardare, d’altronde è quello che facciamo ogni giorno; semmai curiosità, la sana voglia di capire che cosa è successo, come si è trasformato il nostro territorio. E allora colpisce l’occhio una chiesa – San Tommaso,  Limatola – che non è più una chiesa e nemmeno un museo o una sala conferenze di un’università, ma un ristorante; sì un locale con l’aggiunta di una scala. Non si può eliminare il timpano, il rosone e non si può nascondere la contraddizione di una convivenza stretta tra ciò che è stato sacro ed un prosaico utilizzo dello spazio sconsacrato. Ma l’occhio guarda ogni cosa, non seleziona a priori; riscopre così il quotidiano più comune e semplice, il punto di vista ideale per leggere il territorio: il corso principale di un paese che spesso nasce con un bar e poche case attorno, proprio dopo la campagna; il bar storico del Corso, il negozio di fine ‘800 che rimane tuttora il punto di ritrovo delle vecchie e delle nuove generazioni.
Oppure un giorno di festa di una delle tante sagre, per fissare un particolare momento, un matrimonio tra il calore degli invitati e gli addobbi del giorno del patrono. Ciò che animava un piccolo centro di provincia e che oggi presenta una solitudine, un luogo senza automobili e gente che vi passeggia o si ferma a chiacchierare. Non è più lo stesso luogo, sono cambiate anche le architetture, ora restaurate con colori alla moda, ma estranee alla strada, finte, pensate molto sulla carta e non vissute dalla comunità.

                                                                                                                                                         Vito Ganga